Antidepressivi e suicidio

1.

Di recente, alcune ricerche hanno evidenziato il rischio che gli antidepressivi di nuova generazione (SSRI) aumentino, soprattutto tra gli adolescenti, la quota di suicidi nel corso del primo mese di trattamento. Il dato statistico fornito da tali ricerche è piuttosto consistente. Il numero dei suicidi sarebbe doppio rispetto ai pazienti trattati con antidepressivi tradizionali (triciclici).

La notizia ha creato un certo sconcerto tra gli psichiatri che tendono a prescrivere sempre più frequentemente i nuovi antidepressivi ritenendoli meno pericolosi rispetto a quelli vecchi in caso di overdose.

Lo sconcerto si è (provvisoriamente) risolto in seguito alla pubblicazione sul "Journal of the American Medical Association" di un articolo firmato da ricercatori dell'Università di Boston secondo il quale, comparando un gruppo consistente di pazienti trattati con antidepressivi tradizionali e un altro con antidepressivi di nuova geberazione "non c'è differenza significativa fra i due gruppi: tutti i pazienti presentano un aumento di pensieri suicidi durante il primo mese di terapia, specialmente nei primi nove giorni, ma questo incremento è identico per tutti i farmaci". Secondo gli stessi, gli antidepressivi hanno bisogno semplicemente di tempo prima di avere effetto.

Avendo esaminato con cura i dati offerti dalle ricerche precedenti, che segnalavano il pericolo, io ritengo che i ricercatori dell'Università di Boston, come accade ormai spesso, abbiano condotto una ricerca pilotata dalle industrie farmaceutiche. I due antidepressivi maggiormente incriminati (il Prozac e il Seroxat) sono farmaci a larghissima diffusione il cui fatturato incide in misura consistente sui bilanci delle case che lo producono. E' ovvio che qualunque allarme il quale, in prospettiva, può indurre gli psichiatri (e i medici di base) ad essere più cauti nelle prescrizioni, rischia di ridurre in maniera imprevedibile i profitti.

La situazione è dunque confusa, e non può essere affrontata ideologicamente. Quest'articolo mira a valutare gli aspetti psicobiologici del problema dei suicidi che intervengono nel corso della terapia antidepressiva per giungere a conclusioni che invalidano l'impianto teorico della neopsichiatria, secondo la quale la depressione è null'altro che una malattia biologica di natura genetica.

Da questo punto di vista, che gli antidepressivi di nuova generazione abbiano una potenzialità suicidiaria maggiore rispetto a quelli tradizionali non è essenziale. Ciò che è essenziale è che tutti gli antidepressivi incrementano i pensieri suicidiari nel corso del primo mese di terapia, e che questi pensieri talora danno luogo ad un comportamento suicidiario. Che tale circostanza si realizzi con una certa frequenza, maggiore rispetto al passato, negli adolescenti è facilmente riconducibile al fatto che solo di recente è invalsa l'abitudine di prescrivere antidepressivi in rapporto a crisi che, in precedenza, venivano affrontate sul piano psicoterapeutico.

Azzerando e misconoscendo le motivazioni piscodinamiche che sottendono la depressione e enfatizzando la natura biologica della malattia depressiva, la neopsichiatria ha improvvidamente esteso questo concetto all'infanzia e all'adolescenza. Questa estensione che, per alcuni aspetti, si può ritenere criminosa potrebbe però paradossalmente portare ad una crisi dell'ideologia neopsichiatrica per due motivi. Il primo è che l'uso sempre più frequente degli antidepressivi che, sulla carta, almeno per quanto riguarda gli SSRI, dovrebbero rappresentare farmaci agenti sulla causa della depressione (la mancata ricaptazione della serotonina), pone di fronte a risultati che, come ho documentato in articoli precedenti, sono sostanzialmente deludenti. Il secondo motivo è legato, per l'appunto, al sopravvenire di suicidi nel primo mese di terapia.

2.

Secondo la vulgata corrente, il rischio suicidiario è intrinseco alla depressione in quanto conseguenza di un disturbo dell'umore di origine genetica la cui attivazione, che può sopravvenire in qualunque fascia d'età senza apparenti motivi, determina una serie di sintomi strettamente intrecciati tra loro: astenia, apatia, abulia, perdita di gusto per la vita, inappetenza, insonnia, ideazione pessimistica e catastrofica, autosvalutazione, attribuzione di colpa, ecc. Il rischio suicidario sarebbe la conseguenza del sentirsi finiti, del sentire la vita svuotata di senso e del vivere tale condizione come irreversibile, se non addirittura destinata a peggiorare. Pur riconoscendo una matrice comune, tali sintomi non risponderebbero in maniera univoca al trattamento farmacologico. Si può ammettere pertanto che, in alcuni casi, la psicostimolazione antidepressiva incida rapidamente sull'apatia e sull'abulia riabilitando un potere decisionale e una tendenza all'azione che vengono immediatamente cortocircuitate dagli altri vissuti depressivi. In pratica, il soggetto rimane preda dell’umore nero e dell’ideazione catastrofica, ma, sentendosi in grado di decidere e di agire, giunge alla conclusione per cui l'unico modo di porre fine alla sofferenza è togliersi la vita.

Secondo gli psichiatri, se avesse dato tempo al farmaco di agire sul complesso dei sintomi e dei vissuti depressivi, il miglioramento dell'umore nero lo avrebbe indotto a sopravvivere.

Che cos'è che non va in questa vulgata? Anzitutto, il fatto che essa dà per certo che il quadro sintomatologico della depressione, in seguito alle cure farmacologiche, evolve gradualmente verso la guarigione. Questa certezza si traduce nel comunicare al paziente che egli è affetto da un disturbo dell’umore cronico che, in quanto tale, non può essere definitivamente risolto e nel rassicurarlo sul fatto che i singoli episodi di depressione possono essere efficacemente contrastati con i farmaci. Il problema è che nel 25% dei casi questo non è vero: le depressioni cosiddette resistenti non risentono alcun vantaggio anche a lungo termine in seguito al trattamento farmacologico. In un altro 50%, la sintomatologia residua, in particolare l'anedonia e un certo disagio relazionale, persistono.

E’ difficile valutare in quale misura le promesse dei neopsichiatri, sia pure riferite alla guarigione episodica, possano creare in alcuni pazienti delle aspettative che, deluse, confermerebbero la loro convinzione di una condizione irreversibile. Altrettanto difficile è capire se, in alcuni casi, il riferimento ad un disturbo psichico cronico, con il quale si può convivere a patto che si accetti di stare sotto controllo psichiatrico, possa contribuire ad incrementare la disperazione soggettiva.

Io sono convinto che alcuni suicidi depressivi sono iatrogeni. Avendo insistito altrove su quest’aspetto, peraltro non quantificabile, non mi soffermo su di esso.

Intendo piuttosto, ora, considerare aspetti più sottili dei fenomeni depressivi che sfuggono del tutto alla rozzezza della psicopatologia neopsichiatrica. Attribuendo tutti i sintomi della depressione ad un processo morboso e ammettendo per essi una patogenesi univoca, la neopsichiatria non è in alcun modo in grado di spiegare perché gli stessi vanno incontro ad un'evoluzione differenziata.

Da un punto di vista psicodinamico, il mistero si risolve tenendo conto che la sintomatologia depressiva non ha affatto un significato univoco riconducibile ad un disturbo biochimico. Come ho avuto modo di scrivere in Star Male di Testa, il nucleo centrale della depressione – vale a dire l’astenia, l’apatia, l’abulia, la perdita di gusto per la vita – corrisponde all’entrata in azione di potenti meccanismi d'inibizione sottocorticali che danno luogo ad una sorta di black-out. Né più né meno di come avviene in qualunque circuito elettrico, il black out si realizza in conseguenza o di eccessive richieste rivolte all’apparato mentale o del pericolo di un cortocircuito.

Le richieste eccessive possono provenire dall'io stesso, nella misura in cui esso è impregnato di un orientamento masochistico, o dall'ambiente esterno, domestico o lavorativo. In entrambi i casi si definisce una situazione di stress, che può esitare in una depressione, la quale rappresenta semplicemente una messa a riposo dell'apparato mentale. L'unica differenza psicodinamica è che, nel primo caso, il soggetto, inattivandosi repentinamente la possibilità di realizzare le sue istanze perfezionistiche, si arrabbia con se stesso e si sente minato nella sua identità (il falso io); nel secondo, egli è sempre arrabbiato con qualcuno o con il mondo intero, al quale attribuisce la causa del suo "esaurimento".

Il pericolo di un cortocircuito è determinato essenzialmente da una rabbia cosciente e più spesso inconscia, quasi sempre riferibile a rapporti interpersonali conflittuali che promuovono fantasie di soluzioni radicali (scioglimento dei legami, cambiamenti repentini e definitivi di vita, desideri di morte e di vendetta, ecc.). L'impatto di tali fantasie, a livello inconscio, è drammatico perché esse determinano, in soggetti particolarmente sensibili, immani sensi di colpa. La depressione che consegue ai sensi di colpa può avere un significato preventivo, che si esprime mettendo il soggetto in condizione di non agire quelle fantasie, o punitivo, nel senso di produrre, secondo un codice culturale, una sofferenza di pari entità di quella che il soggetto avrebbe fantasticato di infliggere agli altri. Il sentirsi finiti è, da questo punto di vista, abbastanza eloquente.

Si dà una sola altra possibilità di genesi della depressione, peraltro affine a quella testé accennata. Tale possibilità è che eventi attuali risveglino repentinamente memorie colpevoli rimaste rimosse per anni. E' quanto accade, per esempio, in seguito alla morte di un parente (o anche al limite di un conoscente) con cui si è avuto un rapporto più o meno coscientemente conflittuale.

E' evidente che in tutti questi casi il black-out - rappresenti esso una difesa o una protesta contro richieste eccessive rivolte all'apparato mentale, la prevenzione in rapporto a comportamenti antisociali o una punizione inflitta dal super-io per colpe presunte - ha un significato funzionale. Il problema che pone il black-out è, né più né meno, quello di ristrutturare i livelli di coscienza in maniera da permettere all'io di cogliere il significato ultimo dei meccanismi d'inibizione e di affrontare i problemi rimossi.

In sé e per sé, il nucleo sintomatologico della depressione (astenia, apatia, bulimia, perdita di gusto per la vita) determina un'esperienza soggettiva indubbiamente penosa, ma non invivibile. Il problema vero è che se il soggetto non viene messo in grado di cogliere il senso, potenzialmente evolutivo, del black-out e se, come accade quasi sempre, lo interpreta in maniera superficiale, egli cade in uno stato di disperazione perché: primo, assegna a quei vissuti il significato di un crack che è avvenuto nella sua mente, di un processo morboso che compromette la sua identità e lo fa vivere come un vegetale; secondo, ruminando di continuo su quello che è accaduto e sul modo di ritornare ad essere se stesso, egli giunge inesorabilmente alla conclusione che i sintomi, insensibili alle sollecitazioni della volontà e del tutto al di fuori del controllo cosciente, sono destinati a durare per sempre.

La disperazione conseguente alla depressione non è, in breve, legata al nucleo sintomatologico, bensì alla valutazione che il soggetto fornisce dei sintomi e alle previsioni che è indotto ad operare, che lo fanno sentire irreversibilmente finito. La disperazione, che può indurre fantasie o progetti suicidiari, non è, insomma, un sintomo primario della depressione, bensì un sintomo prodotto dalla coscienza del soggetto, incapace di dare senso all'accaduto, al black-out.

3.

Alla luce di quanto detto, è chiaro che un intervento solo farmacologico sulla depressione è intrinsecamente pericoloso. Esso è lecito solo nei casi di depressioni leggere, reattive a eventi negativi di vita o a situazioni di stress, che i soggetti sono in grado di interpretare. In tutti gli altri casi, particolarmente quando la depressione è severa e il soggetto non ha alcuna capacità di avanzare delle ipotesi sulla sua genesi, la sola cura farmacologica può risultare esiziale. Il superamento della convinzione di essere finiti e destinati a soffrire per sempre, infatti, avviene solo allorché la sintomatologia nucleare scompare, vale a dire in non più del 30% dei pazienti. In tutti gli altri casi la persistenza della sintomatologia, sia pure essa ridotta dagli antidepressivi, non può che alimentare l'interpretazione errata di ciò che è accaduto e radicare il soggetto nella convinzione di una irreversibilità del processo morboso. Per fortuna solo una minima parte di pazienti poco o punto sensibili al trattamento farmacologico giungono alla determinazione di togliersi la vita. In questi casi, però, è chiaro che la sollecitazione psicostimolante degli antidepressivi è decisiva perché il comportamento suicidiario si realizzi.

Ciò non significa, ovviamente, che gli antidepressivi sono da bandire. La loro utilità sintomatologica può essere di grande importanza nell'allentare anche rapidamente i sintomi più penosi, in particolare l'insonnia, l'inappetenza e l'astenia. La loro prescrizione non dovrebbe mai avvenire dissociata da un'interpretazione alternativa dei fenomeni depressivi, che dia ad essi un significato dinamico e potenzialmente evolutivo. Certo convincere un soggetto che il black-out che ha più o meno bruscamente interrotto il suo percorso di vita ha un carattere funzionale, che esso non corrisponde ad un processo morboso, e che contiene in sé le ragioni del suo superamento, a cui il soggetto può e deve partecipare ricostruendo la sua storia interiore e prendendo coscienza delle problematiche definitesi al di là di essa, non è semplice. Fornire però ad un soggetto solo una diagnosi, fargli presente che la depressione è null'altro che una malattia del cervello, che non ha alcun rapporto con la sua vita interiore e sociale, e promettergli la guarigione farmacologica, si può ritenere pericoloso.

Il problema da questo punto di vista è che la neopsichiatria è mille miglia lontana da una concezione funzionalistica della mente e da una concezione psicodinamica della psicopatologia. Essa vanta i suoi successi, che sono estremamente scarsi, e mette tra parentesi i suoi insuccessi, dai quali dovrebbe trarre dei criteri di ripensamento del suo impianto ideologico.

Ciò non significa che i neopsichiatri siano responsabili dei suicidi di pazienti depressi in trattamento farmacologico. Di alcuni suicidi, come ho accennato, senz'altro lo sono, in conseguenza delle loro promesse che non si realizzano. Più spesso essi sono responsabili di non fornire al paziente gli strumenti minimali per dare senso alla loro penosa condizione. Si limitano a compatirli, a ritenerli, nel loro intimo, esseri vulnerabili e disadattati, e a giudicarli affetti da una malattia che è un marchio di nascita.

Si può e si deve fare di più e di meglio.